I turbanti dell’India
Esiste, in India, una popolazione che segue i precetti del Sri Guru Granth Sahib Ji, le sacre scritture dei dieci guru che si sono succeduti dal 1469 al 1708. Sono i Sikh, cioè discepoli, uomini e donne, desiderosi di apprendere la verità e di seguire la virtù di un credo religioso che concilia i migliori elementi di islamismo e buddismo. Dopo i massacri con i musulmani negli anni cinquanta del novecento, questo popolo ha abbandonato il Pakistan per trasferirsi nel Nord dell’India e sono immediatamente riconoscibili per il turbante, le lunghe barbe ma, soprattutto, per il loro fisico da mangiatori di carne, infatti sono per la maggior parte alti e robusti. Per religione non si tagliano mai i capelli ma li tengono arrotolati sotto al turbante. E siccome l’India è il «Paese dei colori», e l’uomo di per sé li ama molto e li usa per esprimere i suoi stati stati d’animo (gli studiosi hanno dichiarato che i colori hanno un enorme impatto sulle persone), ecco qualche curiosità.
Negli eventi importanti, il colore del turbante raffigura un particolare sentimento (gioia, tristezza, ecc). Oggi nei matrimoni punjabi (sikh) spesso lo sposo porta il turbante di colore rosso, e la sposa il vestito rosso, perché questo colore simboleggia l’amore. Il bianco è il colore della religione in generale, simboleggia una persona donatrice, che aiuta gli altri, pacifica e armoniosa; le persone anziane di solito portano il turbante bianco, ciò significa che hanno vissuto la loro vita con onore, e non “hanno macchie di peccati sul loro turbante”. Il blu è il colore dell’entusiasmo. Quando in una persona credente nasce questo sentimento, automaticamente è attratta dal blu. Una gran parte dell’esercito di Guru Gobind Singh Ji (decimo Guru) portava questo colore. Il nero, invece, viene usato per protestare. La persona che vuole combattere contro i suoi vizi, è attratta dal colore nero. Il colore arancione-giallo, infinte, è legato alla morte; anche in natura, infatti, le foglie diventano di colore giallo quando giungono alla fine della loro vita.
E la sua lunghezza? Qui dipende dai gusti e dal piacere di chi lo indossa: fino a dieci anni fa, per esempio, si pensava che la lunghezza esatta del turbante fosse di sette, otto metri. I Nehang Singh (guerrieri sikh) a volte indossano un turbante lungo venti, venticinque metri. Oggi sappiamo con esattezza la lunghezza del turbante guinness dei primati: appartiene ad un Neahang Singh (Majer Singh) che indossò un turbante di 30,6 kg, lungo complessivamente 400metri. Una testa davvero pesante da portare sul collo!
Ranakpur, tempio giainista
Sulla strada tra Udaipur e Jodhpur, nel cuore del Rajastan, si trova una fra le bellezze più incredibili che abbia mai visitato: si tratta del tempio giainista di Ranakpur, raggiunto dopo ore di macchina in mezzo ad una foresta lussureggiante, primigenia, popolata da simpatiche scimmiette che si muovono velocissime fra un ramo e l altro degli alberi di peepal, il fico sacro caro alla meditazione e contemplazione di buddisti e induisti.
Il tempio sorge, candido, in mezzo a questo nulla vegetale, lontano da ogni villaggio. Quando arrivo, una pioggia insistente sta infradiciando ogni cosa, tanto che devo ripararmi sotto ad un tettoia per farmi “ispezionare” dai monaci svetambara (una delle due principali declinazioni del giainismo), i custodi del tempio, bianco vestiti, che ti ammoniscono sui dettami da rispettare nel luogo: nessun capo in pelle, ovviamente scalzi (come d’abitudine in moltissimi luoghi sacri indiani) e nessuna manifestazione d’affetto tra persone, nel rispetto del credo giainista. Ogni fedele, infatti , obbedisce ai “cinque grandi giuramenti” del giainismo che prevedono il massimo rispetto di ogni forma di vita (ahinsa), il perseguimento della verità (satya), il divieto di rubare (asteya), la castità (brahmacharya), e il divieto di possedere (aparigrah). Non mi soffermerò a parlare dell’architettura del tempio, dedicato al maestro Adinath, di stile “barocco” per la ricchezza delle incisioni, ognuna differente dall’altra su ciascuna delle ben 1444 colonne, e su cui poggiano ben ottanta cupole, anche queste una più incredibile dell’altra per leggerezza, spaziosità, luce e maestosa pienezza. Racconterò, piuttosto, di quanto ho provato, seduta su uno dei gradini interni del tempio nella luce incerta del primo mattino, appoggiata ad una piccola lastra di marmo che dava su un’apertura esterna, lo sguardo lanciato nel verde della foresta. Le gambe raccolte al petto, gli occhi chiusi a sentire il dolce canto della pioggia che elevava tutta la sua poesia scorrendo lieve fra le scanalature del marmo bianco, ho provato una pace struggente, intensissima, quasi vorticosa nel suo sommergermi. E come anni fa, fronte alle immense e sconfinate dune del deserto del Sahara, persa in quell’immensa inquietudine delle sabbie che mutavano ad ogni refolo di vento, ho sentito in me una musica, come una preghiera, accorata e struggente e così intima ed ancestrale che era naturale abbandonarsi a quell abbraccio sussurrato di pace e di quiete, dove anche le ombre più cupe dell’nimo si schiarivano senza rumore, trovando finalmente requie e asilo. La mia India, finalmente.
Usanze indiane
Già dai primi giorni, in questa meravigliosa terra mi sono resa conto di alcune usanze particolari e, soprattutto diverse, fra i popoli occidentali e questi asiatici. La prima è che se ci si trova nel bel mezzo del traffico indiano, e già di per sé non è cosa da poco, considerata la scarsa attenzione che gli indiani hanno per i pedoni, se si chiedono informazioni ad un abitante locale, molto probabilmente questo vi risponderà con un enigmatico movimento della testa, una via di mezzo tra sì e no. E questo “ni” cosa vorrà dire? Penserete voi, così come ho pensato anch’io la prima volta che mi è capitato a New Delhi.
Quasi subito ho imparato che significa, per la maggior parte delle volte: sì, spesso sottolineato e seguito a più riprese da un “aah”, che ne dà conferma. Se invece significa “no” l’oscillazione è un po’ meno decisa ma un sorriso spunta comunque sulle labbra della persona interpellata, come facciamo anche noi quando, magari, non sapendo l’informazione richiesta, alziamo le spalle come a dire “non lo so, ma annuisco con simpatia per farti capire che ti sono vicino e… per farti contento”.
Un’altra cosa che ho imparato molto presto è anche l’assoluta proibizione e superstizione, aggiungo io, riguardo all’uso della mano sinistra. In primo luogo penso ai mancini, (“figli del diavolo” anche qui e costretti a usare comunque la destra?) e poi trovo sinceramente molto difficile usare solo ed esclusivamente la destra dappertutto! Ma qui hanno proprio dei seri problemi riguardo alla mano sinistra, per cui non bisogna usarla per toccare niente e nessuno, non per porgere oggetti, denaro o, peggio ancora, prelevare del cibo! Il motivo? Dal momento che tradizionalmente viene usata al bagno per pulirsi, è considerata impura, quindi il suo utilizzo in contesti sociali è segno di mancanza di rispetto. E tutto questo è davvero molto complicato se si pensa che in India si mangia spesso con le mani, e bisogna continuamente ricordarsi di farlo ( stile “post it” sulla fronte per intenderci), usando sempre la mano destra, o si viene automaticamente considerati come incivili e pure… “poco puliti”! A quel punto tanto vale fare gli occidentali e chiedere una salvifica forchetta o un cucchiaio per salvarci da situazioni imbarazzanti.
Un’ultima usanza, almeno per me particolarmente disgustosa, è la masticazione del betel, un’erba dalle foglie larghe conosciuta per il suo potere digestivo. Una sorta di chewingum pulisci-denti a fine pasto, insomma. Peccato che il suo “succo” abbia un terrificante colore rossastro, tipo bava sanguinolenta e, al primo di questi “sorrisi draculini” che incontro ci rimango, a dir poco, basita. La guida mi spiega ancora, deliziata, masticando qualcosa che non voglio sapere, cosa sia il betel, spiega che può avere vari gusti e dunque donare diverse piacevoli sfumature ai denti, dalla classica rossa, spaziando dal rosso arancio al marroncino, fino al nero fuliggine. Sorrisi davvero indimenticabili!
Amber Fort a Jaipur
Amber Fort dista una decina di chilometri da Jaipur.Si tratta di una fortezza, costruita su una collina, circondata da una lunga muraglia, che in passato serviva da protezione verso gli attacchi esterni e che oggi, per il suo splendore, è la maggiore attrazione turistica di Jaipur. Ci si arriva a piedi o, per meglio gustarsi il paesaggio, come faccio io, a dorso di elefante, esperienza un po’ traballante e puzzolente (dicono che l’odore di elefante sia impossibile da cancellare) ma sicuramente da provare.
All’entrata del forte, che già da lontano appare maestoso ed imponente, c’è un tempio della dea Kalì, piccolo e poco illuminato, dove un fedele, prima di fare la visita vera e propria della fortezza, si ferma a pregare. Lo osservo in silenzio, è un piccolo frammento di quotidianità rubato ma molto toccante: mentre lo scorgo entrare vedo che, all’interno del tempio non ci sono fedeli e dunque lo seguo incuriosita da una spiritualità che riesco a cogliere ancora solo in superficie. Per accedervi, ci si deve togliere, oltre alle scarpe, anche le calze ed è strana e refrigerante al tempo stesso la sensazione dei piedi nudi sul marmo gelido, mentre fuori ristagna il caldo umido dell’estate. Non so se sia l’effetto dei piedi nudi, del suono della campana che viene suonata dai fedeli, dell’immancabile profumo di incenso o dell’atmosfera, ma si sente un’ energia incredibile, che spinge a raccoglierti in preghiera, d qualunque religione tu sia.
Uscita dal tempio, Amber Fort mi abbaglia in tutta la sua fisicità, fatta di colonne maestose, capitelli finemente intarsiati che accendono lo sguardo di meraviglia e di stupore. Ma la sorpresa più incantata, quella per la quale rimango davvero a bocca aperta per la meraviglia è la sala degli specchi, le cui pareti ed il soffitto sono scolpiti da miliardi di frammenti di vetro iridescente, piccole gemme di luce soffusa ed evanescente, che rimandano a immagini su immagini, frammentate a loro volta e riflesse su loro stesse, in un’esposione di bellezza.
La guida spiega che questa sala è stata voluta dal Mahrasja Man Sigh (sigh significava leone) per permettere alla propria consorte, la regina, di vedere le stelle senza uscire all’esterno, in quanto bellezza protetta e riservatissima del re a cui non era consentito uscire. Gli architetti reali, grazie agli specchi, riuscirono a fare in modo che la luce di due candele potesse trasformarsi nel bagliore di migliaia di stelle, restituendo alla regina confinata tutta la bellezza della notte o l’abbagliante rigogliosità della luce del sorgere di un nuovo giorno. Per inciso, il re aveva ben trentatre donne, fra mogli e concubine, che vivevano negli zenana (appartamenti) a loro destinati, nei quali il maharajà poteva con discrezione far loro visita ogni qualvolta lo desiderasse e trascorrere in intimità del tempo con loro. Altro che mille e una notte!
Varanasi
L’India è una centrifuga che ha cambiato le mie abitudini e influenzato il peso del mio passo sul mondo senza prima chiedermene il permesso. Varanasi ne è stata la parte forse più malinconica e respingente, doveva essere il fulcro spirituale del mio viaggio e, invece, con tutte le bancarelle che vendono oggetti e soluzioni per problemi che non hai ancora neppure tentato di formulare nella tua mente, con le urla sguaiate della gente così diversa dai sussurri furtivi e gentili degli indiani a cui sono abituata, mi è apparsa come un assurdo formicaio brulicante in cerca di un’arte dell’arrangiarsi che ha molto poco di sacro e così tanto, invece, di prosaico e profano.
In questa Gerusalemme induista, affollata e indifferente, fatta da pingui santoni che vendono cianfrusaglie e cerimonie sacre ad esclusivo uso e consumo dei turisti, in queste offerte insistite di fiori e corone che scimmiottano un dolore che dovrebbe rimanere privato, mi infilo nel caos primordiale dei vicoli, nel via-vai famelico e snervante dei clacson e della gente.Cammino senza mai staccare gli occhi da terra, per evitare di calpestare dio-solo-sa-cosa, provo a respirare il meno possibile, arrivando al limite del soffocamento e vedo mucche sacre, maiali e cani randagi che banchettano sui miseri resti mortali dell’uomo, in una danza macabra che chiude il cerchio di una natura scheletrica e falciatrice, poco incline a concedere sconti. Ai miei occhi, ancora forti di una promessa di vita tutta da accogliere, cibo da assaporare, luoghi da vedere e sole sul viso a scaldare la pelle, Varanasi rimane e, credo, rimarrà sempre, come una domanda senza risposta, un interrogativo sepolto sotto cumuli di immondizia, ceneri e misere spoglie mortali. L’India, per fortuna, è molto altro.