Il 27 settembre sarà nelle librerie Il burattinaio (Dalai editore), seguito dell’Acchiapparatti e ultimo romanzo di Francesco Barbi. Abusando biecamente della sua disponibilità ne ho approfittato per fare quattro chiacchiere con lui sulla sua ultima fatica letteraria e sulla scrittura…
Letteratura fantasy non significa solo Tolkien o Rowling. È una cosa scontata? Purtroppo, perlomeno in Italia, no: sul genere sopravvivono, e sono duri a morire, molti preconcetti culturali che lo pretendono destinato a un pubblico giovane o, in diversi casi, molto giovane, e di bocca buona. Questa tendenza a confondere una parte con il tutto non è limitata al genere fantasy, riguarda un po’ tutta la letteratura di genere, ma il fantasy, fino ad ora, è quello che ha pagato il prezzo più salato in termini di reputazione. Per un autore italiano scrivere storie che rientrano in questo genere significa anche dover affrontare stupidi preconcetti, frutto di una mentalità provinciale e antiquata. Francesco Barbi, che in questa guerra al provincialismo culturale ha saputo ritagliarsi un ruolo importante, oggi è un riferimento per molti autori e lettori che desiderano cimentarsi con il fantasy. C’è riuscito scrivendo storie mature e ricercate nella forma e nei contenuti, schivando le manie di protagonismo che affliggono diversi suoi colleghi e colleghe, ma anche stabilendo con i propri lettori (attraverso Internet) un rapporto diretto, da pari a pari.
Quando hai deciso di voler scrivere un seguito dell’Acchiapparatti?
«Ho iniziato a pensare a un altro romanzo ambientato nelle Terre di Confine mentre scrivevo L’acchiapparatti, o quantomeno nell’ultima fase della sua stesura. Nello sforzo creativo per portare avanti la trama, avevo generato molto materiale, scene, personaggi e luoghi, scambi di dialogo e in generale idee che non potevano entrare a far parte di quella storia ma che avevo annotato sui miei quadernetti. Sentivo già che avrei avuto voglia di tornare in quelle terre, di incontrare di nuovo certi personaggi e di raccontare un’altra vicenda. Non ho più avuto dubbi circa le mie intenzioni quando ho saputo che L’acchiapparatti di Tilos sarebbe stato ripubblicato da B.C. Dalai Editore».
È necessario aver letto l’Acchiapparatti per poter leggere Il burattinaio?
«No, non è necessario. Chi leggerà in prima battuta Il burattinaio avrà forse la spiacevole sensazione di essersi perso qualcosa, così come la piacevole sensazione di ritrovarsi immerso in un mistero legato a una vicenda pregressa che dà profondità all’atmosfera e alla lettura… In ogni caso il non conoscere le vicende narrate ne L’acchiapparatti non preclude la comprensione della trama del nuovo romanzo».
La serialità è una delle caratteristiche tipiche dei romanzi di genere. Molti la considerano un difetto a priori. Tu che ne pensi?
«Io credo che un libro dovrebbe raccontare una storia, dall’inizio alla fine. E dunque, in generale, a me non piacciono quei libri al termine dei quali la storia non è conclusa, che obbligherebbero i lettori ad acquistare i successivi per scoprire dove si va a parare. In quel caso lo reputo un difetto, sebbene non di rado si possa anche chiudere un occhio… Quando invece ciascun libro contiene una storia a sé stante, trovo piacevole poter ritrovare ambientazione e personaggi già conosciuti e a cui magari ci si è anche affezionati. Un po’ come ritrovare vecchi amici e rivedere luoghi che ci sono rimasti nel cuore».
In cosa è cambiato, se è cambiato, il tuo modo di scrivere dal primo al secondo romanzo?
«Tra la primissima stesura de L’acchiapparatti e quella de Il burattinaio, il mio modo di scrivere è senz’altro cambiato. In questo secondo romanzo il ritmo è più serrato, le scelte stilistiche più mature… Per farla breve, direi che ho acquisito consapevolezza dei mezzi, una serie di automatismi e, naturalmente, fiducia e sicurezza».
Durante la stesura del Burattinaio sul tuo blog hai chiesto ai tuoi lettori pareri e opinioni sul lavoro in corso: è una prassi molto interessante. Perché credi sia utile?
«Il confronto è sempre utile. Si scrive per se stessi, ma anche per gli altri e ogni opinione può essere valida. Se a qualcuno non piace una frase, un passaggio, uno snodo nella trama o una descrizione, a mio parere è sempre fruttuoso domandarsi il perché, se si vuole cercare di migliorarsi e di migliorare il testo. Ho imparato che è raro trovare la soluzione che soddisfi chiunque, però sono convinto che più persone “lavorano” su un testo (e più punti di vista diversi sono messi in gioco) e meglio è per quel testo. Non penso che esista una via perfetta per scrivere bene e fortunatamente non credo di possedere la verità assoluta in fatto di scrittura».
In quello che scrivi si ritrova una cura estrema della verosimiglianza. Perché l’attenzione a quest’aspetto è così importante anche in un romanzo fantasy?
«Be’, in un romanzo fantasy forse è ancor più importante porre attenzione alla verosimiglianza, visto che già chiediamo al lettore di calarsi e “credere” a un’ambientazione inventata di sana pianta. Per quel che riguarda me, in effetti sono piuttosto fissato con plausibilità, coerenza e verosimiglianza. Trovo altamente affascinante cercare di dare consistenza e rendere reale, visibile, annusabile, toccabile, un mondo che è frutto della fantasia. Ritengo che questa sia una delle sfide più stimolanti nello scrivere un romanzo di genere fantasy. Non è un caso, forse, che i miei due romanzi siano considerabili low-fantasy…»
Ci sono degli autori a cui ti ispiri o che tieni come modello di riferimento?
«A dire il vero, non ho particolari autori a cui mi ispiro… Tutto ciò che leggo mi influenza, nel bene o nel male. Mi capita spesso di storcere il naso e di riflettere su quanto e perché una certa scelta non sia felice, così come mi succede di concentrarmi e di soffermarmi in modo spontaneo su passaggi che sento particolarmente riusciti. Se devo fare qualche nome, mi piace lo stile di Lansdale, Wilesford, Simenon, King, Ammanniti…»
Quali sono i libri che dovrebbe leggere chi desidera avvicinarsi al genere fantasy?
«Una domanda troppo complessa. Ne dirò tre che mi sono rimasti impressi: Lo hobbit, La leggenda di Druss e Gli inganni di Locke Lamora».
Cosa manca veramente al fantasy italiano per emanciparsi dai pregiudizi che lo tormentano?
«Un substrato culturale diverso da quello che c’è ancora in Italia. Una maggiore apertura da parte di critici e giornalisti, e una maggiore attenzione, voglia di investire in qualità e impiego di risorse da parte degli editori. Il tutto dovrebbe andare a minare l’idea-pregiudizio di molti secondo cui il fantasy sarebbe un genere ad esclusivo consumo dei giovanissimi o di una nicchia di nerd».
Cosa c’è nel futuro di Francesco Barbi dopo il Burattinaio? Hai già qualche progetto in testa?
«Al momento sto rivedendo un libro di racconti di fantascienza. Una volta messo da parte quello, mi dedicherò a qualcosa di nuovo. Non ho idea di cosa si tratterà, potrebbe essere un giallo pulp ambientato in Toscana così come un romanzo storico, e dunque non posso fare alcuna anticipazione. Ho diverse idee, ma non ho deciso ancora niente. Forse mi allontanerò dal fantasy (per rimanere o meno nell’ambito del fantastico), almeno per un po’».