Alla domanda se il Futurismo abbia o meno avuto una continuità, un’eredità nella stagione artistica italiana successiva, è quantomeno difficile dare una risposta univoca. Il Futurismo è stato infatti uno dei movimenti più duraturi – circa quarant’anni – del Novecento, considerando il lasso di tempo che intercorre fra i prodromi di inizio secolo e le ultime propaggini del cosiddetto “secondo periodo”, quello in cui si sviluppano l’aeropittura di Crali e la figurazione cosmica di Fillia e Diulgheroff.
Dopodichè una serie di esperienze appartenenti alle correnti postbelliche richiameranno via via alla mente alcuni elementi della fase futurista senza però riuscire a trasmetterne l’anima più profonda, lo spirito innovatore e rivoluzionario.
Fatte salve alcune manifestazioni di arte cinetica promosse dal MAC di Bruno Munari sul finire degli anni Quaranta, sarà in realtà durante i funambolici anni Sessanta che si compierà lo sforzo maggiore di recupero di alcuni presupposti futuristi, sull’onda di quel boom economico che sembrava compiere definitivamente quella trasformazione radicale della società che il gruppo di Marinetti aveva fiutato nel dinamismo di inizio secolo.
Sembrava, appunto. In realtà l’ideale avanguardistico era un’altra cosa: partiva da un rinnovamento profondo delle coscienze e confidava in un anelito incondizionato per il progresso che, per tragico destino o per la stessa natura utopica dei preamboli, sarebbe rimasto eternamente insoddisfatto, non potendo per sua natura dissolversi e svilirsi nel mero consumismo e nell’industrializzazione che si affacciavano nel Dopoguerra.
E così le Neoavanguardie romane degli anni Sessanta riabilitano i protagonisti indiscussi, i “mostri sacri” del passato futurista ottenendo di volta in volta effetti contrastanti: Mario Schifano riesuma la celebre fotografia del 1912 scattata a Parigi in Rue Richepanse, all’interno della serie “Futurismo rivisitato”, trasformando però la caratteristica silhouette del gruppo in un’icona Pop. Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini e Lucia Marcucci fanno rivivere il paroliberismo e le associazioni sinestetiche nella poesia visiva dei collages, in cui tuttavia prevalgono le implicazioni della cultura pubblicitaria dei giornali a colori e della televisione, sottolineando ironicamente l’aspetto vacillante di un’emancipazione e un benessere effimeri. Piero Dorazio infine sviluppa alcuni aspetti della poetica della scomposizione tanto cara a Giacomo Balla, approfondendo lo studio delle intersezioni cromatiche: eppure anche qui se nella forma si possono scorgere ancora reminiscenze del grande maestro, nella sostanza si parla già un’altra lingua, quella dell’astrattismo e delle correnti optical-art che avrebbero portato di lì a poco ad esiti puramente estetico-percettivi e comunque del tutto alieni dalla grammatica futurista.
Che il grande movimento italiano abbia segnato il secolo, è fuori di dubbio. Che abbia trovato degli eredi capaci di spartirsi un patrimonio così ingente e di reinvestirlo consapevolmente è un altro paio di maniche. Ma forse meglio che sia andata così, che ciascuno ci abbia messo del suo per scongiurare l’ennesimo revival, evitando di travisare il messaggio dirompente della corrente e di generare le sempre temibili “brutte copie”.
Luca Morosi – 2009 (distribuito con Creative Commons)