Fado e saudade
Non si può visitare il Portogallo e non avvicinarsi al canto del fado. Questo genere musicale, nato a Lisbona, nell’Ottocento, nei quartieri poveri a ridosso del porto come l’Alfama, Bica, Mouraria, è molto vivo e praticato in tutto il Portogallo. Il fado (la parola fado viene dal termine latino fatum, ovvero destino) articola i canti e le melodie intorno a tematiche esistenziali tristi, che hanno a che fare con l’indecifrabilità del destino, le amarezze e le difficoltà del vivere quotidiano, la nostalgia e i desideri spesso frustrati dell’uomo, incapace di dare voce ai suoi più intimi e reconditi desideri. Nasce dalla vocazione marinara del Paese, aperto all’oceano Atlantico e geograficamente racchiuso in una striscia di terra ai confini occidentali dell’Europa. I grandi viaggi avventurosi che caratterizzarono la fondazione e l’affermazione di questa nazione avrebbero intensificato il senso di malinconia e solitudine di cui erano pervasi tanto coloro che partivano quanto coloro che restavano, soprattutto donne, ad attendere il ritorno dei propri cari. È facile, allora, in questo contesto, immaginarsi, di fronte all’immensità del mare e del cielo, il volto e l’anelito di una fanciulla, da sola, o con la madre e le amiche, mentre canta, nelle cantigas de amigo, il desiderio di rivedere l’amato, partito per andare incontro all’ignoto.
Oggi il fado in Portogallo si può ascoltare ovunque, poiché esistono delle vere e proprie Case di Fado in molte città. Non è tutto uguale, c’è quello “nobile”, cantato da fadisti nazionali come Mariza, dai temi e i sentimenti più alti, e quello “vazio”, ossia vagabondo, cantato nelle varie Case di Fado o per strada da professionisti e non, che cantano anche di storielle popolari, situazioni comiche o sensuali con ironia.
A me capita di ascoltarlo in un locale del Porto di Lisbona, all’Alfama, in una bettola un po’ fumosa, nonostante il divieto del fumo nei locali sia in vigore anche qui, nascosta rispetto alla strada principale. In realtà mi accorgo dell’esistenza di questo locale solo perché una ragazza ne esce accompagnando con la mano, silenziosamente, la porta.
È solo un attimo ma mi giungono le note sfumate di una melodia irresistibilmente dolce, che accende dentro di me una nostalgia che mi dà brivido e la concretezza insieme della nostra imperfezione come esseri umani.
Allora sospingo quella porta ed entro, e il mio sguardo è rapito da una chitarra e dalla voce di un donna che ne accompagna le dolci cadenze, solo lei, sul palco, come sospesa in una parentesi affrancata dal tempo e il suo canto mi sospinge ad esplorare dentro di me un’inesplicabile sensazione di rimpianto, di mancanza, e al tempo stesso un desiderio di raggiungere l’inafferabile e malinconica necessità di varcare il confine dell’orizzonte stesso, in un percorrere le vie di un sentimento che non ha bisogno di parole per essere spiegato ma, soprattutto, per esistere dentro di noi.
Tram numero 28 a Lisbona
Tramite passaparola scopro che il tram numero 28 è una delle attrazioni più famose di Lisbona ma non è un trenino turistico, tipo quegli enormi autobus a due piani rossi della fascinosa Londra. Queste carrozze gialle stridenti e quasi catarrose, mentre si arrampicano lungo scorci mozzafiato da cui a tratti intravedo il fiume Tago, è un “umilissimo” mezzo dell’azienda di trasporto pubblico Carris, anche se definirlo soltanto “un mezzo pubblico” sarebbe riduttivo. Le carrozze da cui mi sporgo curiosa, infatti, sono originarie dei primi del Novecento, ma anche quelle più moderne che si snodano dietro di me hanno pannelli di legno lucido e finiture cromate che regalano loro un fascino da pezzo di antiquariato in stile rococò.
Sorrido se penso alla semplicità di questo popolo, che ha saputo coniugare un giro sulle montagne russe, un tuffo nel passato e un itinerario nei meandri nascosti della città, il tutto al prezzo di un biglietto dell’autobus! Esperienza romantica ma anche da…. brivido! In alcuni momenti chiudo gli occhi nel vedere i vertiginosi saliscendi su cui si inerpicano le sferraglianti carrozze e le svolte in strade così strette che, quanto il tram le attraversa, sfiora quasi le mura delle case. Ma la curiosità è più forte, li riapro e vedo ancora il fiume Tago che scorre verso l’oceano, il mosaico di tetti dell’Alfama, le eleganti piazze decorate di piastrelle, le porte e le finestre in ferro battuto da cui scorgo occhiate fugaci ma curiose quanto le mie. Quaranta minuti soltanto, e non si sente neppure la durezza delle scomode panche di legno, gli occhi incollati per scorgere le graziose guglie gemelle dell’Igreja de sao Vincente de Fora. Quando scendo, seppur ancora un poco scombussolata dai sobbalzi del tram, entro a Belém nella pasticceria più famosa di Lisbona, Pasteis de Belem. In questa sala da tè che risale al XIX secolo si possono gustare le famose tortine alla crema pasticcera, ancor oggi preparate secondo la ricetta segreta dei monaci del monastero vicino. Ne mangio ben due, incantata dal sapore delicato che si scioglie in bocca. E non mi sento neppure in colpa dato che qui, ogni giorno, ne sfornano e ne vendono circa settemila!
Capo di San Vincenzo, estrema propaggine occidentale d’Europa
Non so perché ma, a me, i confini della terra sono sempre piaciuti. Sarà per quel sapore di zona di frontiera o per la consapevolezza antica di credere che, una volta, il mondo finiva in quel luogo o, ancora, per le leggende legate a quei tratti di costiera dal fascino selvaggio e impervio, con il vento che ti sferza il volto come se fossi stato improvvisamente catapultato in una landa desolata di Cime Tempestose, dove un viaggiatore, o meglio un pellegrino, ha la netta percezione di essere arrivato alla fine dell orizzonte conosciuto.
E dunque dopo Land’s End, in Cornovaglia, dove il mio sguardo si era perso nell’azzurro smagliante di un agosto che si stagliava alto, contro al cielo, trafiggendolo in salmastre lame di luce, dove il mio sguardo scorreva sul bordo dei pendii ricoperti di erica e suadente era il canto dei gabbiani che volteggiavano maestosi sulle acque, ora mi trovo di fronte ad altre altissime scogliere, e più precisamente quelle di Cabo san Vincente.
In questo luogo le onde dell’Atlantico si ergono fieramente su loro stesse attorcigliandosi in lucidi serpenti di schiuma, infrangendosi contro falesie ardite e vagamente inquietanti: se ti avvicini troppo alla parete scoscesa il vento ti fischia nelle orecchie ed è un passo e un monito insieme a non superare il confine fra l’essere umano finito e consapevole dei suoi limiti e la divina furia degli elementi, senza tempo, al di là dei terreni sgomenti. La luce di un faro accompagna il cammino e sembra quella di un topazio gettato nell azzurro, dove l’incanto sfida la superbia dell’uomo a sentirsi un essere migliore rispetto ad una tale meraviglia della natura. Anche qui finisce la terra. Oltre le scogliere il nulla.
Si è alzato un vento fortissimo e la salsedine penetra prepotente negli occhi e nel naso, si infila in ogni fessura lasciata libera da sciarpa o cappotto. Ho di fronte un arido e brullo promontorio che stravolge lo sguardo per l’infinità a cui va incontro, penso che questo sia l’ultimo desolato lembo di terra che i marinai portoghesi vedevano salpando verso l’ignoto. Penso al senso di smarrimento che dovevano provare, mentre si allontanavano da tutto quello a loro caro, mentre cercavano di relegare, in un piccolo anfratto dell’anima, i ricordi più belli della loro esistenza, per avere la forza di affidarsi, senza timori, verso l’inesplorato, passando, attraverso l’ineluttabile e straziante passaggio dell’anima, da quello che si conosce e si desidera all’incerto incedere nel vuoto e nell’immensità. Chissà, forse li spingeva anche solo la vaga speranza di essere ricordati come i primi ad essere giunti in un luogo nuovo o, forse, era solo l’anelito a vivere da uomini e non da bestie i loro giorni sulla terra, scoprendo nuovi orizzonti, come il folle e saggio Ulisse.
Cerco nella memoria e mi ricordo che questo capo era venerato dagli antichi fenici e veniva chiamato Promontorium Sacrum dai romani e che deve il suo nome attuale a un sacerdote spagnolo che fu martirizzato dai romani. Del fasto del passato però ora non rimane più nulla perché le fortificazioni antiche furono devastate da sir Francis Drake nel 1587 e poi completamente distrutte dal terremoto del 1755.
Di nuovo osservo il mare, che si infrange sulle scogliere. Chissà, forse chi viaggia ha scelto come mestiere quello del vento.
La cappella delle ossa ad Evora
Quando si viaggia, oltre a monumenti e icone d’arte da visitare, si incontrano anche luoghi oscuri e inquietanti, che ugualmente, per lo spirito di avventura che c’è in ognuno di noi, ci spingono a pensare: “Beh, se sono arrivato fin qui, perchè non visitare anche questo?” E così, eccomi ad Evora, nella pianura dell’Alentejo, dove una delle chiese più visitate è quella di San Francesco, ma non la Chiesa in sé, col suo indubbiamente meraviglioso portale con i simboli dell’impero portoghese (la corona, il pellicano e la sfera) ma la cappella delle ossa adiacente. Un ossario, direte voi, come ce ne sono tanti nel mondo della cristianità, come le catacombe di Palermo o altre chiese al cui interno vengono conservati di resti di qualche martire o Santo, ma la Capela Dos Osos, qui in Portogallo, è decisamente più macabra e sinistra.
Edificata nel 1700, come si diceva adiacente alla chiesa di San Francesco, fu fortemente voluta da francescani allo scopo di ricordare a loro stessi e ai visitatori la caducità della vita e la sua drammaticità. La cappella è infatti costruita con ossa e teschi umani: le pareti, i tetti, i pavimenti, sono tutti composti da resti umani, in rilievo e perfettamente distinguibili dai visitatori. Oltre 5000 corpi sono stati utilizzati per realizzare questo funebre edificio di morte, per lo più frati francescani inumati nai cimiteri o persone estratte dalle fosse comuni portoghesi. Sono anche presenti due scheletri intatti, uno di questi di un bambino. Un sinistro ammonimento è riportato all’ingresso della cappella, che tradotto dal portoghese recita più o meno così: “noi ossa che qui stiamo, le vostre aspettiamo”. Dei versi oscuri che metteno i brividi e che fanno emergere pensieri inquietanti sulla brevità della vita e su quanto fugace sia il nostro passaggio sulla terra.
In questo luogo in penombra, dove sembra si sia arresa anche la prepotente e lussureggiante luminosità portoghese, la luce entra da tre piccole finestre nella parete di sinistra: i muri perimetrali e le otto colonne che sostengono il soffitto sono decorate da ossa umane, teschi e tibia collocati con ordine e uniti, a mezzo del cemento, alle pareti. Anche il soffitto è decorato con motivi funerari. La sensazione di smarrimento è acuita dai due cavaderi essicati appesi a una parete e pendenti da una catena che la leggenda vuole essere padre e figlio, ma di cui si ignora il motivo di tale marcescente, ammonimento finale. Esco e penso che mi sento viva più che mai e, soprattutto, che ho ancora più voglia di viaggiare e di scoprire altre meraviglie, siano pure oscure stranezze come questa.