Nessuno se lo aspettava eppure è successo. Dopo sedici anni una consultazione referendaria ha raggiunti il quorum. È un fatto nuovo, incredibile, stupefacente. Ci eravamo abituati ad un popolo italiano acquiescente, distratto, un poco menefreghista. Ed ora, in un solo mese, la percezione che avevamo di lui è cambiata radicalmente.
Dopo la straordinaria partecipazione alle amministrative, la tendenza si conferma ai referendum e il popolo italiano diventa il protagonista dell’Europa. È questa la vera novità: l’Italia ritorna senza preavviso al centro dell’Europa e lo fa con forza e decisione; bella, incredibilmente bella, ricca di partecipazione e impegno attivo.
Erano anni che la partecipazione agli appuntamenti elettorali di qualsiasi tipo erano contassegnati tassi sempre più bassi. Una tendenza simile al resto del mondo occidentale e dell’Europa in primis. La vecchia democrazia è affaticata, si diceva, ci vogliono nuovi paradigmi di rappresentazione democratica, questi sono obsoleti, si azzardava. Lo si osservava in America, lo si vedeva negli altri stati europei. A decidere erano le segreterie dei partiti, astuti osservatori, manipolatori dei sondaggi. Il liberalismo selvaggio ne ha approfittato: la finanza creativa e la delocalizzazione selvaggia hanno fatto arricchire pochi potenti, hanno costruito, in una decina d’anni, un mondo globale in cui a decidere non sono più le persone ma le multinazionali. Le aziende hanno usato i governi per fare i loro interessi più biechi, a prescindere dai reali interessi dei cittadini. Il meccanismo democratico sembrava essere diventato una routine da poco conto; chiunque fosse al potere non poteva in effetti mettere in discussione le direzioni prese da altri più in alto di lui.
L’Italia non è stata da meno. Gli ultimi dieci anni sono stati dominati da una figura di un anti-statista, un personaggio che non è mai sembrato troppo intenzionato a dare una reale direzione al paese. Tranne assecondare l’interesse di qualche amico e delle imprese a cui doveva rendere conto, che fossero personali o statali, Silvio Berlusconi non ha saputo dare alcuna direzione politica ad un paese che è andato avanti da sé, senza volontà generale, in un mondo che non lo considera più attore attivo ma spettatore con poche possibilità di scelta. L’Italia di Berlusconi è un paese in balìa degli eventi, che accetta con ottimismo tutto quello che gli capita, senza chiedersi come prevenirlo né come evitarlo.
I due quesiti principali di questa consultazione referendaria andavano proprio in questa direzione. La privatizzazione della gestione dell’acqua e la scelta nucleare, presentati da Berlusconi, erano di fatto la sottomissione del sistema paese agli interessi di aziende straniere imposte dai nostri potenti vicini. Privatizzare l’acqua avrebbe voluto dire darla in gestione in breve tempo alla più grande impresa europea del settore: la francese Veolia, già artefice della privatizzazione sperimentale dell’azienda municipale di Latina, Acqualatina (non è un caso che Alemanno e la Polverini vi siano opposti…). Anche il nucleare avrebbe fatto arricchire le imprese francesi del settore, come ben risaputo. Insomma, un’ennesima svendita ai vicini d’oltralpe; questa volta col bene placito della Lega Nord.
La non-gestione berlusconiana del paese, che ha governato 8 dei 10 ultimi anni, e di cui questi quesiti referendari sono due esempi (importantissimi, ma solo due esempi) ha esautorato e impoverito il paese. L’Italia è riuscita questa settimana a scivolare dal quinto al settimo posto nella produzione industriale mondiale, indebolendo la sua naturale vocazione manifatturiera (senza la quale il paese non è più niente). Notizie così (diffuse da Confindustria, non dalla CGIL) sarebbero bastate per mettere in crisi qualsiasi governo di un paese occidentale. O per lo meno avrebbe aperto un serio dibattito. In Italia non è accaduto perché la classe politica è impegnata a guardarsi l’ombelico e molto spesso non conosce i fondamenti delle cose di cui dovrebbe parlare (ricordiamo con emozione la tripla A dell’onorevole Santaché).
Di fronte alla crisi economica e alla stretta della globalizzazione, che sta mettendo a dura prova tutta l’Europa, ci sono state reazioni molto diverse. Quella che più ha fatto notizia è il movimento degli Indignati spagnoli che si è diffuso a macchia d’olio nel resto del continente: dalla Grecia al Portogallo, dalla Francia alla Germania. Un movimento ispirato dalle esperienza delle “primavere arabe” ma che, in Europa, non condivide le stesse premesse. Questo pittoresco movimento degli indignati rifiuta ogni partecipazione ai processi democratici, predica una protesta anarcoide che rifiuta ogni intervento dei partiti politici e dei sistemi rappresentativi democratici. Individua i sintomi della democrazia esautorata dalla globalizzazione delle multinazionali, ma non propone vie d’uscita. Propone la non-partecipazione alla vita democratica.
Ieri in Italia si è visto qualcosa di nuovo, qualcosa che non si vedeva da molto tempo. Gli Italiani hanno ripreso la loro antichissima vocazione di “cittadini” e l’hanno fatta valere. Di fronte al non-governo di un uomo volgare che ha rubato loro futuro e passato (…il Parnaso che diventa un Bunga-Bunga party…), non si sono indignati rifiutando di partecipare al proprio destino, ma si sono vestiti dei panni nobili dei cittadini e hanno fatto valere i loro diritti, conquistati in decenni di lotte civili.
Così spesso bistrattati e derisi dai vicini europei, hanno utilizzato uno strumento popolare, costruito attraverso la democrazia che hanno contribuito a far nascere in secoli di storia (da Roma a Firenze, da Venezia alla lotta di Liberazione) e hanno detto la loro opinione su argomenti che stavano loro a cuore e sui quali non potevano sopportare decidesse una oligarchia poco illuminata. Gli italiani sono fortunati a disporre di strumenti democratici come i referendum. Altri popoli non condividono gli stessi mezzi: i giapponesi non prevedono il referendum come mezzo di consultazione, i francesi lo usano poco. La scelta nucleare è stata presa nei due casi senza alcuna partecipazione popolare.
C’è da essere fieri oggi dei “cittadini italiani”. Non del “popolo”, come sentiamo spesso dire da chi vorrebbe considerarlo tale: unica entità indistinta di finti individui influenzabili e raggirabili. È stata scritta una delle più belle pagine della storia del nostro paese dalla sua creazione come stato unitario. Non importa cosa succederà poi. Sono pagine ricche di speranza, coscienti che essere indignati non basta. Coscienti che la libertà è partecipazione.
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