Scriveva Torquato Tasso, nel Discorso della virtù femminile e donnesca, che le donne di elevato sentire (quelle, diceva Dante, che sono veramente donne, «e non pure femine»), possono essere «vaghe di vagheggiarsi nello specchio dell’anima» contemplando il proprio ritratto. L’immagine non era solo rappresentazione dell’esteriorità, ma trasparenza limpida ed assoluta dell’imago interiore. L’animo e l’intelletto «difficilmente intendono se medesimi»; lo sguardo non vede se stesso; l’autocoscienza non può essere che riconoscimento di sé nell’altro da sé.
Un anniversario dimenticato
Su quelle pagine tassiane (ancora oggi poco note, malgrado l’edizione curata da Maria Luisa Doglio per Sellerio nel 1997) dovette meditare a lungo Lavinia Fontana, che del poeta della Gerusalemme (artefice, con l’arte della parola sorella del pennello, di memorabili ritratti di donne, ora amorosi ora tragici, ora foschi ora morbidamente sensuali) fu appassionata lettrice; e il cui quarto centenario della morte, caduto nell’anno appena concluso, è stato, a quanto pare, dimenticato — fra tante ricorrenze obbligate, più o meno vacue, e stancamente iterate, come in una grigia e minore movenza del tempo — da tutte e tre le sue città, quella natale, Bologna, quella dell’adozione biografica (Imola, dove andò sposa, nel 1577, a Giovan Paolo Zappi, rampollo della stessa famiglia di cui entrerà a far parte, nel Settecento, la poetessa Faustina Maratti Zappi, altra esponente di assoluto rilievo della sommessa, umbratile ma finissima creatività femminile di Ancien Régime), e infine quella — Roma — delle più prestigiose ed inclite committenze.
Il volto e lo specchio
Ritratto come specchio, si diceva. Specchio molteplice e sfaccettato, dai numerosi volti o maschere, dalle diversificate proiezioni. Il volto — o la sua ombra distante, il suo profilo sfumato — o, viceversa, il suo contorno quintessenziale e idealizzato, purificato dal riflesso dell’autocoscienza — della pittrice riappare, iterato nelle forme più diverse — i due autoritratti veri e propri, allo scrittoio e alla spinetta, che evocano entrambi, con l’immobilità o con il gesto, con lo studiato candore dello sguardo e le labbra pensose della meditazione, il musicale silenzio dei segni fissi sulla carta, dei sensi e dei suoni — e dei seni — effigiati, e del moto ancora impronunciato delle mani, che potrà destarli o ridestarli oltre il velo dell’immagine — ma, insospettabilmente, addirittura, cripto-autoritratto déguisé, Giuditta che impugna la testa di Oloferne, fissando con ferma e fatale calma lo spettatore, mentre in basso, nel profondo piccolo Ade di una semioscurità carraccesca, o quasi caravaggesca ante litteram, giace sospesa la sommità spenta di una mascolinità sconfitta, e sopra, in una lontananza quasi indefinita, sorride l’ancella, quasi Gorgone o demone o Morte — e Lavinia è anche, nel Noli me tangere, la Maddalena prostrata ai piedi di un intangibile, ed improbabile, Cristo pellegrino, Verbo in cammino su tutta la terra, mentre il silenzio spazia su un paesaggio profondo, quasi metafisico, e su tre oscuri testimoni senza volto — ma pure, paganamente, nell’ultimo dissimulato autoritratto, poco prima del tramonto, Minerva intenta a vestirsi — corpo luminoso, flessuoso, danzante, fasciato della radiosa impalpabile grazia di una giovinezza perduta, che solo il farmaco e il sortilegio dell’arte possono richiamare e rianimare.
Femminilità tra sacro e profano
Ma la femminilità, nelle sue tele, è anche — nell’Assunzione della Vergine — quella mistica, trascendente, anagogica, rappresentata con un vorticoso sfavillio manieristico, con uno sguardo che ascende fino a dissolversi dantescamente in pura luce — femminina eternità verso cui tende, orante, nelle palme aperte e tremanti dei santi protettori, la città terrena che guarda a quella celeste, la storia immanente che tenta di risolversi in quella superiore e ideale della trascendenza, in accordo — come ha notato Vera Fortunati — con l’estetica post-tridentina del Paleotti. Per quest’ultimo, nel Discorso intorno alle imagini sacre e profane, l’immagine è similitudo, affinità, analogia, per quanto imperfetta, del sacro; riflesso, nella natura immanente, di quel lumen naturale, di quella luce della grazia che, al momento della creazione, Dio ha lasciato nell’uomo prima di ritirarsi nel suo cielo.
Nell’Assunzione (la prima pala d’altare dipinta da una donna nell’Europa cattolica), quella luce è precisamente l’aureola radiosa che avvolge la Vergine, la «candida rosa», l’immateriale grembo «che solo amore e luce ha per confine».
Ut pictura poesis
Immagini sono anche le parole. E l’opera di Lavinia Fontana ispirò i poeti, sull’onda di quell‘ut pictura poësis, di quell’analogia — ulteriore, riflessa similitudo — fra le arti che pervade la cultura fra Rinascimento e Barocco. Il Marino, nella Galleria, scrive, riferendosi ad un‘Erodiade con la testa di Giovanni Battista, dipinta da Lavinia:
Mentre in giro movendo il vago piede
La Danzatrice Ebrea,
Ciò, che a pena potea
Soffrir cogli occhi, con la lingua chiede…
L’arte è danza ed eccidio, sangue e leggiadria; l’immagine, crocevia d’antitesi e di paradosso, può dire con il silenzio, danzare con immote forme. L’arte è sacrificio — dell’esistenza all’immagine, come del messaggio al non detto, e della vita palpitante di sangue all’immateriale presenza-assenza del simulacro.
Mallarmé si ricorderà di Erodiade, facendone incarnazione della Bellezza che esige il sacrificio a sé di ogni cosa. «Le soleil que sa halte / Surnaturelle exhalte». «Et ma tête surgie / Solitaire vigile»… La decollazione è duplicità nell’unità, dualismo di identità e proiezione. L’immagine-parola è signum contradictionis.
Tra rinascimento e modernità
Anche in una delle sue manifestazioni in apparenza minori (e, in particolare, in quella creatività femminile che spesso si suppone povera di cultura e di autocoscienza), l’Autunno del Rinascimento conferma che dal suo morbido e vibrante lucore di crepuscolo poté nascere l’alba chiaroscurale della modernità — o d’una, almeno, delle modernità possibili.