Nel 1760 James Machperson rimette in circolazione i canti dei bardi gaelici e degli Highland scozzesi raccogliendoli e pubblicandoli in un volume intitolato Fragments of Ancient Poetry collected in the Highlands of Scotland and translated from the Gaelic or Erse language. Questo moderno rapsodo della terra di Scozia attribuisce la paternità dei canti epici a un nuovo Omero del Nord, il leggendario Ossian.
Alfieri (1749-1803) e Ossian (x-x)
L’incontro fra Vittorio Alfieri e i Canti di Ossian fu mediato dalla persona di Melchiorre Cesarotti, incontrato dal poeta astigiano non solo sulla carta (nella traduzione che fece della poesia di Macpherson), ma anche di persona.
I due poeti ebbero modo di stringersi la mano durante un soggiorno a Padova compiuto nel 1783 da Alfieri, prima tappa di un sodalizio profondo tra gli autori. Come Alfieri stesso dirà nella Vita, è proprio alla traduzione cesarottiana dei Canti di Ossian che si deve un ruolo fondamentale nella formazione del proprio originale verso tragico.
Agli esordi della propria carriera di tragediografo Vittorio Alfieri si pone l’obiettivo di individuare un modello da seguire. La ricerca si conclude quando nel 1775 il piemontese fa in una libreria torinese un acquisto determinante: una copia dei Canti di Ossian in 4 volumetti.
All’indomani dell’acquisto, come d’abitudine, Alfieri ne annota in prima pagina nome, luogo e data; da quel momento i versi ossianici non smetteranno mai di affascinarlo.
Troviamo scritto nella Vita: «Mi posi all’impresa di leggere e studiare a verso a verso per ordine d’anzianità tutti i nostri poeti primari, e postillarli in margine […]. Ma trovando a bella prima Dante riuscirmi pur troppo difficile, cominciai dal Tasso, che non avea mai neppure aperto fino a quel punto. […] Ma a poco a poco mi andai formando e l’occhio e la mente a quel faticosissimo genere di lettura; e così tutto il Tasso, la Gerusalemme; poi l’Ariosto, il Furioso; poi Dante senza commenti, poi il Petrarca, tutti me gli invasai d’un fiato postillandoli […]. Ma dovendo io scrivere in verso sciolto, anche di questo cercai di formarmi dei modelli. Mi fu consigliata la traduzione di Stazio del Bentivoglio.
Con somma avidità la lessi, studiai, e postillai tutta; ma alquanto fiacca me ne parve la struttura del verso per adattarla al dialogo tragico. Poi mi fecero i miei amici censori [Agostino Tana e Padre Paciaudi] capitare alle mani l’Ossian del Cesarotti, e questi furono i versi sciolti che davvero mi piacquero, mi colpirono e m’invasarono. Questi mi parvero con poca modificazione, un eccellente modello pel verso di dialogo».
Alfieri resta folgorato. Il primo incontro con l’Ossian di Cesarotti assume per lui tutti i caratteri di una rivelazione, di un’epifania creativa che chiama «invasamento». Dalle pagine dell’Ossian Alfieri attinge l’arte del troncare il verso e mutarne il ritmo all’improvviso tramite un coacervo di enjambements e pause forti. Postille e “tratticelli” sono incise sulla spessa carta dei volumetti, le stesse annotazioni che Alfieri trasporrà poi nella stesura dei suoi Estratti d’Ossian per la Tragica (1775).
Gli Estratti di Ossian per la Tragica contengono la riduzione drammatizzata e dialogizzata dei primi tredici poemetti fra i ventisei che componevano l’edizione padovana del 1772: Fingal (sei canti), La guerra di Caroso, Comala, La guerra d’Inistona, La battaglia di Lora, La morte di Cucullino, Dartùla, Temora (otto canti), Oscar e Dermino, Callin di Cluta, Sulmalla, Carritura, Calloda (primo canto).
Con un’abile riscrittura teatrale dei testi ossianici, Alfieri compie una vera e propria metamorfosi dei poemi dall’epica alla tragedia. Riducendo il testo in forma drammatizzata, egli concentra e sintetizza i versi, sfrondando narrazioni prolungate, similitudini e metafore dal sapore troppo epico, sempre in cerca di quella brevità che caratterizza i suoi versi. Gli Estratti sono la prima tappa del viaggio alla conquista dello stile che Alfieri intraprende e descrive nella Vita, accanto alle peregrinazioni che realmente compì in giro per l’Europa.
Molte immagini ossianiche saranno trasposte nei testi di tragedie alfieriane come il Saul: In negra nube del giovinetto la cerulea forma torva s’avanza [Temora, i, 12-14]. Trema, Saùl: già in alto, In negra nube, sovr’ali di fuoco Veggio librarsi il fero angel di morte: [Saul, iv, 219-221].
Importante anticipazione del gusto ossianesco che pervade la visione di Alfieri dei paesaggi nordici viene offerta da un passo della Vita dedicato alla narrazione del viaggio in Svezia affrontato nella primavera del 1770, nel corso del cosiddetto Grand Tour. La scenografia sublime della primitiva natura nordica svedese lascia il segno nel giovane poeta, il quale anni dopo sovrapporrà i propri ricordi affascinati alle immagini poetiche della traduzione del Cesarotti.
Foscolo (1778-1827) e Ossian (x-x)
Nella lettera datata 14 maggio del primo Ortis (dato alle stampe nel 1798), Omero, Ossian e Dante sono definiti come «i tre maestri di tutti gli ingegni sovrumani».
Curiosamente, a partire dall’edizione del 1802 Foscolo rimpiazzerà Ossian con Shakespeare, verosimilmente in ragione della nuova importanza archetipica raggiunta dal poeta di Stratford-Upon-Avon nel panorama culturale settecentesco. La lettera è qui riportata nel testo della prima edizione.
«S’io fossi pittore! Qual ampia materia al mio pennello! L’artista immerso nell’idea deliziosa del bello addormenta, o mitiga almeno, tutte le altre passioni. Ma … se anche fossi pittore? Ho veduto ne’ pittori, e ne’ poeti la bella, e talvolta anche la schietta natura, ma la natura somma, immensa, inimitabile non l’ ho veduta dipinta mai.
Omero, Ossian, e Dante i tre maestri di tutti gli ingegni sovrumani hanno investito la mia fantasia, ed infiammato il mio cuore: ho bagnato di caldissime lagrime i loro versi ; e ho adorato le loro ombre divine come se le vedessi, assise su le volte eccelse che sovrastano l’universo, a dominare l’eternità.
Sulla cima del monte indorato dai pacifici raggi del sole che va mancando, io mi vedo accerchiato da una catena di colli sui quali ondeggiano le messi, e si scuotono le viti sostenute in ricchi festoni dagli olivi e dagli olmi: le balze e i gioghi lontani van sempre crescendo come se gli uni fossero imposti su gli altri.
Di sotto a me le coste del monte sono spaccate in burroni infecondi fra i quali si vedono offuscarsi le ombre della sera che poco a poco s’innalzano; il fondo oscuro e orribile sembra la bocca di una voragine.
Nella falda del mezzogiorno l’aria signoreggiata dal bosco che sovrasta, e offusca la valle dove pascono al fresco le pecore, e pendono dall’erta le capre svagate.
Cantano flebilmente gli uccelli come se piangessero il giorno che more, muggono le giovenche, e il vento pare che si compiaccia del sussurrar delle fronde. […] Ma da settentrione si dividono i colli, e s’apre all’occhio un’interminabile pianura: si distinguono ne’ campi vicini i buoi che tornano a casa; lo stanco agricoltore li siegue appoggiato al suo bastone: e mentre le madri e le mogli apparecchiano la cena all’affaticata famiglia, fumano le lontane ville ancor biancicanti, e le capanne disperse per la campagna.
I pastori mungono il gregge, e la vecchiarella che stava filando su la porta dell’ovile abbandona il lavoro e va accarezzando e fregando il torello, o gli agnelletti che belano intorno alle loro madri.
La vista intanto si va dilungando, e dopo ampia fila di alberi e di campi termina nell’Orizzonte dove tutto si minora e si confonde: lancia il sole partendo pochi raggi, come se quelli fossero gli estremi addio che dà alla natura; le nuvole rosseggiano, poi vanno languendo, e pallide finalmente si oscurano: allora la pianura si perde, l’ ombre si diffondono sulla faccia della terra, ed io, quasi in mezzo all’oceano, da quella parte non vedo che il cielo».
Ma sono i Sepolcri, emblema della poesia cimiteriale, a mostrare inequivocabilmente le tracce dell’intensa ed esaltante esperienza di Foscolo con i Canti di Ossian.
I motivi tradizionali della poesia ossianica erano già stati affrontati dalla poesia sepolcrale (pioniere l’inglese Thomas Gray): il topos (che sarà rivisitato da Leopardi) delle patetiche interrogazioni alla Natura, il compianto per l’infelice destino di morte dell’uomo, il sacro valore del ricordo, il leitmotiv dell’«illacrimata sepoltura», le atmosfere notturne, spettrali e tempestose (sfogo del Romanticismo britannico, da Coleridge alla vittoriana Emily Brontë), amore e morte, epicità e tragedia.
Tutti elementi riscontrabili nei Fragments di James Macpherson. Eccone riportati alcuni passi: VINVELA: Then thou art gone, O Shilric! and I am alone on the hill. The deer are seen on the brow; void of fear they graze along. No more they dread the wind; no more the rustling tree. The hunter is far removed; he is in the field of graves. Strangers! sons of the waves! spare my lovely Shilric. SHILRIC: If fall I must in the field, raise high my grave, Vinvela. Grey stones, and heaped-up earth, shall murk me to future times.
When the hunter shall sit by the mound, and produce his food at noon, “some warrior rests here,” he will say; and my fame shall live in his praise. Remember me, Vinvela, when low on earth I lie! DERMID: […] Deep is the sleep of the dead; low their pillow of dust.
No more shall he hear thy voice; no more shall he awake at thy call. When shall it be morn in the grave, to bid the slumberer awake? Farewell, thou bravest of men! thou conqueror in the field! but the field shall see thee no more; nor the dark wood be lightened with the splendor of thy steel. Thou hast left no son. But the song shall preserve thy name. Future times shall hear of thee; they shall hear of the fallen Morar.
Goethe (1749-1832) e Ossian (x-x)
Anche il poeta di Francoforte Johann Wolfgang Goethe subì il fascino dilagante dei Canti di Ossian.
Lo provano le frasi cariche di pathos che pronuncia il giovane Werther nell’omonimo romanzo epistolare, dove si legge: «12 ottobre. Ossian ha sostituito Omero nel mio cuore. In che mondo mi conduce questo sublime poeta! Errare attraverso la brughiera, investito dal vento tempestoso che nella vaporosa nebbia evoca fantasmi dei padri in una luce crepuscolare, udir venir giù dai monti, nel frastuono del torrente della foresta, il flebile lamento che gli spiriti emettono nelle loro caverne, e i gemiti della fanciulla che sospira d’amore attorno alle quattro pietre coperte di muschio e d’erba che formano la tomba dell’amato eroe! […]».
L’amore per Ossian matura in Werther di pari passo con l’amore per Carlotta, ma come il cuore si apre ai versi sublimi, così penetra nell’animo del protagonista il desiderio di por fine alla propria esistenza terrena. Nelle scene finali del romanzo, vediamo Werther consegnare in dono a Carlotta la propria versione dei canti ossianici, e vivere con l’amata un momento di grande pathos e coinvolgimento proprio durante la lettura di alcune scene del poema.
Le parole si troncano quando la forza soverchiante delle lacrime costringe i giovani a interrompere la lettura, come effetto diretto del potere del sublime di cui Macpherson (sotto mentite spoglie) si fece moderno cantore. Pochi testi autentici furono, insomma – per messaggio, pregnanza, emblematicità, influenze, eredità, echi –, paragonabili a questo conclamato falso.
Che, per inciso, un letterato imolese minore, attardato, oggi dimenticato (un vecchio Arcade e poeta didascalico ancorato ai valori e ai pregiudizi dell’ancien régime), Camillo Zampieri, fu tra i primi, nel breve carme latino De Ossiano poeta, a riconoscere come tale; mentre letterati ben più illustri e moderni, forse proprio perché suggestionati nel profondo, calamitati nella loro vigile e ricettiva sensibilità, preferirono lasciarsi felicemente ingannare da quei versi falsi nell’attribuzione, ma a loro modo autentici nell’inventare e plasmare un passato mitico in cui la nuova sensibilità moderna potesse trovare, o illudersi di trovare, i propri archetipi e la propria nobilitazione.