Il romanzo di Christa Wolf è una rivisitazione del mito di Medea presentatoci in varie versioni tra cui quella di Euripide. La scrittrice nella sua opera dissente dalla versione di Euripide che presenta Medea come una maga, un’assassina senza pietà, infanticida nonché l’archetipo della femminilità più irrazionale e violenta. Alla guaritrice Medea vengono attribuiti i più atroci misfatti: l’uccisione del fratello Absirto, la peste che dilaga a Corinto, la morte di Glauce e, infine, l’uccisione dei propri figli. Il popolo finisce per addebitare a Medea la causa dei mali che affliggono la città.
Christa Wolf invece, attraverso un originale racconto a sei voci (la protagonista Medea, il marito Giasone, l’allieva Agameda, Acamante, il fratello Absirto e la rivale Glauce), racconta una Medea diversa: una donna sola, innamorata, che diventa il capro espiatorio per delitti commessi dalla società. Le voci sono tutti monologhi che ci forniscono una storia univoca e allo stesso tempo frammentata. Ogni personaggio racconta la propria storia, il rapporto con Medea e l’importanza che questa aveva nella sua vita. La prima voce è quella di Giasone che parla di Medea come di colei “che mi sarà fatale” per poi descriverci i suoi malefici raccontando che “divulgò la sua conoscenza delle piante selvatiche e […] costrinse i corinzi a mangiare carne di cavallo”. Poi, alla fine del monologo, subentra un termine mai utilizzato, Giasone infatti parla di Medea come di una “profuga dipendente da me”.
La seconda voce a parlare è quella di Agameda, allieva di Medea e sua conterranea (la Colchide), ma completamente inserita nella società corinzia al punto di vergognarsi delle sue origini. Anche il suo esordio è rivolto a Medea: “Ce l’ho fatta. L’ho vista impallidire. Le parole giuste mi vennero inaspettatamente, ma l’odio le aveva lavorate per mesi […]”. Queste poche frasi riassumono tutto l’odio che Agameda prova nei confronti di Medea e che esternerà nel corso dei suoi interventi cogliendo ogni occasione per insultarla e affermando di non comprendere “la sconsideratezza con cui lei procede”. Ma le parole che riassumono l’atteggiamento corinzio nei confronti dello straniero,vengono pronunciate da Acamante: “proprio non saprei dire cosa in quei giorni facesse più scalpore delle avventure degli argonauti, o su cosa si spettegolasse di più se non sulla donna che presto chiamarono la bella selvaggia.[…] i miei corinzi guardavano quel piccolo drappello di immigrati come animali esotici, non proprio cortesemente, non proprio scortesemente”.
La vita di questi personaggi è scandita dal silenzio, dall’ambiguità: “La città ha fondamenta sopra un misfatto. Chi rivela questo segreto è perduto”. Medea è la sola a conoscere i segreti che si nascondono sotto l’apparente benessere di Corinto e quindi è l’unica che potrebbe spezzare questo silenzio opprimente ma non le sarà concesso perché lei, straniera, sola, profuga e maga non avrebbe saputo intervenire in faccende tenute nascoste per moltissimo tempo. Christa Wolf nella sua riscrittura del mito cerca le fonti antecedenti ad Euripide che con la “sua Medea” aveva impresso nella memoria pubblica l’immagine di una donna malvagia, assassina dei suoi figli. Invece le fonti antecedenti dimostrano come una donna proveniente da una società matriarcale non avrebbe mai potuto uccidere le proprie creature.
La figura euripidea di Medea si era creata nel tempo per dare voce ad un bisogno discriminatorio e denigratorio nei confronti delle donne. Medea mantiene la propria identità colca sia nel modo di vestire che di comportarsi, sia nelle abitudini che nelle usanze a cui era sempre stata abituata. Non manca mai di rispetto al Paese che la ospita e ai suoi abitanti. La sua unica colpa è proprio quella di mantenere la sua identità rimanendo indifferente ai comportamenti e alle provocazioni che le vengono rivolte. Nelle parole di Agameda percepiamo quanto l’indifferenza risulti insopportabile: “è indifferente. Per lui deve essere un pungolo insopportabile”. Medea non è l’unica straniera a Corinto ma è l’unica a non accettare la sottomissione e la rinuncia alla propria identità. La figura di Medea viene quindi presentata da due punti di vista diversi: quello delle voci che raccontano di una Medea malvagia e traditrice e quello della scrittrice che propone l’immagine diversa di Medea, cioè di una donna forte, che ha sentimenti umani e che soprattutto desidera mantenere la propria identità di donna colca.
In un dialogo immaginario con la madre rimasta in patria, Medea le confida di aver scoperto nei sotterranei del palazzo del re di Corinto, la presenza di ossa infantili, gelosamente custodite da Merope, la moglie del re. La donna ricorda anche il giorno in cui ha conosciuto Giasone e ammette di sapere che i Corinzi l’accusano di orribili misfatti di cui è però innocente (in particolare si dice che mentre lei e Giasone fuggivano dalla Colchide dopo aver rubato il vello d’oro, Medea avrebbe ucciso il fratello Apsirto disperdendone i pezzi per ritardare l’inseguimento). In realtà Absirto fu fatto uccidere per ragioni di potere dal suo stesso padre. Agameda, ex allieva di Medea nelle arti mediche, ha intanto scoperto che Medea è penetrata nei sotterranei del palazzo, e ne informa Acamante, consigliere del re e primo astronomo di Corinto.
Medea non è una strega né un’infanticida. Questo è ciò che trasmette il romanzo di Christa Wolf. Rispetto al testo di Euripide, che afferma la superiorità della ratio greca sul mondo dei barbari, il mito è stato riletto soprattutto a partire dal lato romantico. Il dato sconcertante del romanzo resta sempre quell’atroce violenza perpetrata dalla barbara della Colchide sulla propria prole. E questo è l’elemento che il romanzo di Christa Wolf mette in discussione, perché la figura di Medea rappresenta una riflessione sulla “diversità” femminile. La sua cultura si nutre dei riti misteriosi del corpo e della fertilità: è una cultura matriarcale che ripudia la violenza, proprio perché legata ai valori “femminili” del concepimento e del parto.
Christa Wolf
Medea. Voci
E/O
2000
240 pp., 8,50 euro