Ogni aspirante scrittore o poeta che si rispetti, prima o poi, deve affrontare lo snodo più complesso del suo mestiere: riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena. La storia della Letteratura ci insegna che vivere della propria arte – perlomeno nei primi momenti di assoluto anonimato – è un impresa complessa e, in molti casi, persino pericolosa.
Editori a pagamento Se ne rese conto a proprie spese Edgar Allan Poe quando, nel 1827 – contro il parere del padre adottivo –, mise mano al portafogli per pubblicare di tasca propria con un editore a pagamento il suo primo libro di poesie: Tamerlano e altre poesie. Quei soldi (che, col senno di poi, possiamo facilmente giudicare ben spesi) gli valsero una prima fama, ma fecero sì che il patrigno indispettito lo diseredasse completamente. Per il resto della propria esistenza dovette fare i conti con un’endemica mancanza di denaro. Un problema non certo da poco se si considera che, ridotto sul lastrico, dovette usare le lenzuola del corredo nuziale come sudario per la giovane moglie morta prematuramente.
Cherchez la femme Ben più calcolatore fu Jules Verne. Il padre lo volle avvocato per proseguire la tradizione di famiglia e Jules obbedì (anche se controvoglia). Si laureò in legge a Parigi e seppe sfruttare bene il giro di conoscenze che si fece nella capitale (uno su tutti Alexandre Dumas). Parallelamente al lavoro come avvocato non si fece sfuggire alcuni incarichi pubblici di natura culturale, fece quelle che oggi definiremmo “pubbliche relazioni”. Nel 1850 fece il grande passo abbandonando definitivamente la carriera giuridica per dedicarsi alla letteratura. In principio racimolò qualche soldo con delle commedie teatrali di scarso successo, ma ben presto si rese conto che non sarebbe durato molto. La risposta ai suoi problemi arrivò nel 1857 quando si sposò con Honorine Morel, donna benestante in grado di garantirgli una sufficiente indipendenza finanziaria.
Sotto contratto Emilio Salgari, al contrario dei due casi precedenti, riuscì abbastanza facilmente a fare della scrittura il proprio mestiere. E, se fosse stato meno ingenuo, il povero Salgari si sarebbe probabilmente accorto che, gli editori che l’avevano assunto, intendevano esclusivamente sfruttarlo come uno schiavo. I vincoli contrattuali con questi sciacalli l’obbligavano a scrivere tre libri l’anno. Per ogni libro doveva produrre perlomeno un migliaio di pagine al ritmo di tre pagine ogni giorno. Non aveva pause, non poteva permettersi malattie. In più doveva dirigere un periodico di viaggi e scrivere qua e là qualche novella. Come resistere a questi ritmi di lavoro? Facile: fumare almeno cento sigarette al giorno e attaccarsi fin dalla mattina a una bella bottiglia di Marsala. Tutto questo per guadagnare quattro soldi e non vedere mai la propria famiglia (costretta comunque a vivere nella miseria più totale). Morale della storia: un bel giorno una lavandaia lo trova sventrato in un bosco. Salgari lasciò agli eredi 150 lire in contanti e un credito di 600 lire.
Il lavoro nobilita lo scrittore Il caso di Aron Hector Schmitz, meglio noto come Italo Svevo, è emblematico di un approccio innovativo – oggigiorno ampiamente diffuso – al problema degli scrittori di sbarcare il lunario. Meno problematico di altri suoi colleghi e forse più pragmatico, Svevo sembra mettersi fin da subito in testa che la letteratura va affiancata a un lavoro redditizio e, possibilmente, poco impegnativo. Per questo – non me ne vogliano i bancari – decide di impiegarsi in banca. Un buono stipendio e un orario di lavoro decente gli permettono di collaborare con l’Indipendente, un giornale di ampie vedute socialiste e di pubblicare nel 1892 Una vita e nel 1898 Senilità. Entrambi i romanzi vennero completamente ignorati dalla critica. Per un breve periodo, deluso dagli insuccessi letterari, Svevo meditò persino di mollare la scrittura. Alla fine si dimise dalla banca ed entrò nell’azienda di vernici sottomarine del suocero. Per nostra fortuna la passione per la scrittura però, nonostante le delusioni, non gli passò.
Sempre meglio che lavorare Bukowski non era ancora trentenne quando pubblicò i suoi primi lavori (Aftermath of a Lenghty Rejection Slip e 20 Tanks From Kasseldown), ma l’editoria non sembrava un ambiente adatto a lui. Perlomeno questo era quello che credeva, perciò smise di scrivere per quasi un decennio. In questi anni vagabondò per gli Stati Uniti facendo lavori saltuari e dormendo in posti che, per decenza, non possiamo definire neppure motel. Nei primi anni cinquanta lo assunsero come postino a Los Angeles, ma si licenziò dopo neppure due anni. Decise in quel periodo (forse in seguito a un grave ricovero) che era il momento di riprendere in mano la penna e di ricominciare a fare poesia. Tornò presto alle vecchie abitudini e al vecchio lavoro alla Posta, ma questa volta vi rimase per quasi un decennio. Nel ‘69 Bukowski si licenziò nuovamente per fare della scrittura la sua principale professione. Ottenne come incentivo uno stipendio di 100 dollari al mese “a vita” da John Martin, editore del Black Sparrow Press. «Dovevo fare una scelta – spiegò in seguito –: rimanere all’ufficio postale ed impazzire, oppure andarmene da lì, giocare allo scrittore e morire di fame. Decisi di morire di fame».