Parlare d’Architettura oggi non è come averne parlato nei tempi passati. Pensiamo a tutte quelle epoche in cui l’Architettura assurgeva a rappresentazione tangibile del potere, ad esempio nella Roma barocca, oppure nella Germania degli Anni ’30 e ‘40, periodo in cui Albert Speer, architetto del Fuhrer, era una delle persone più importanti di tutto il panorama nazista, dopo Hitler stesso.
In Italia, gli ultimi tentativi di Architettura rappresentativa si sono avuti col Fascismo, sebbene con risultati molto meno eclatanti di quelli ottenuti dall’omologa politica nazista in Germania.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Architettura ha cominciato a perdere in tutto l’Occidente il suo ruolo rappresentativo e perfino l’arroganza del “palazzo alto” (il grattacielo) tipicamente americana si è piegata a declinazioni meno roboanti e molto più esplorative, riflessive, a volte introverse, molto spesso ermetiche, quasi a fuggire dalla semplicità di solito stucchevole della magniloquenza. Pensiamo, ad esempio, all’enorme differenza stilistica che c’è tra l’Empire State Building (New York – 1931) e il progetto del Bosco Verticale di Boeri (Milano – 2014); mentre esempi di skyscrapers magniloquenti sono continuati a fiorire nel mondo orientale (si vedano soprattutto le Petronas Towers di Kuala Lumpur – 1998 – progetto di Cesar Pelli), d’altronde diversamente orientato a livello culturale. Uno dei pochi esempi di semplice rappresentatività nel panorama degli edifici alti in Occidente è forse dato dalle compiante Torri Gemelle di New York (con le quali proprio le Petronas Towers di Kuala Lumpur sembrano avere dei legami di parentela…).
Alla ricerca di un baricentro
Al di là del caso del grattacielo, si può comunque e forse ancor più affermare che dopo la Seconda Guerra Mondiale tutta l’Architettura in Occidente ha faticato a trovare un baricentro. Probabilmente, proprio la terribile esperienza della guerra (unita a quella della Grande Guerra del 1914-1918) ha sconvolto i pensieri e le percezioni umane a tal punto da sradicare gran parte di quell’ottimismo che ha caratterizzato la fine dell’800, producendo d’altra parte per l’Architettura edifici fortemente evocativi e ricchi, se non nell’aspetto decorativo, quantomeno per i materiali utilizzati (si veda la Sezession viennese). Così ha testimoniato l’esperienza di Le Corbusier, prima della Seconda Guerra grande sostenitore di un ordine regolatore universale (suo, ad esempio, il Modulor, la cui definizione conclusiva risale però al periodo successivo alla guerra), successivamente molto più propenso all’analisi introspettiva e alla creazione di opere sofferte, complesse, fortemente riflessive più che linearmente evocative. Il riferimento è, ovviamente, la Cappella di Ronchamp.
Il Postmodernismo
È seguito un lungo momento interlocutorio al quale il Postmodernismo ha cercato di dare una risposta, quale figlio del rinnovato ottimismo degli anni ’70 e ’80 (anche se la sua origine è da fare risalire un po’ più indietro nel tempo). Un ottimismo durato assai poco, così come il movimento Post-modern, di cui la Piazza Italia di Moore a New Orleans (1978) è forse l’esempio più eclatante.
Il Post-modern intendeva forse ritrovare, riproporre risposte semplici a domande complesse, ricercando le motivazioni nelle radici del passato. Un approccio messo ben presto in crisi da buona parte della critica intellettuale, forse un po’ a sorpresa, perché in fondo è un tipo di approccio che ritorna frequentemente nel corso dei secoli (si pensi al Neoclassicismo…). Forse perfino un approccio sottovalutato, perché portatore di un senso critico non pienamente colto, nei confronti dell’introversione maturata nel periodo post-bellico.
Sta di fatto che dall’inizio degli anni ’90 l’Architettura occidentale ha esplorato nuove strade, dall’High-tech all’espansione del Decostruttivismo, dallo Storicismo all’Architettura parametrica, ma senza trovare alcun punto fermo, alcun riferimento sicuro; e tuttora vaga nell’incertezza, quasi che l’esplosione del benessere abbia causato la più grande perdita di riferimenti fissi.
In questo scenario caratterizzato dall’incertezza, si sono fatte avanti le cosiddette Archistar (def. di M. Fuksas): non più “semplici” architetti, ma veri e propri VIP del panorama culturale e mediatico, capaci di catturare l’attenzione con realizzazioni tanto iconiche quanto solipsistiche, forse più vicine al mondo dell’arte che alle reali esigenze dell’edilizia. Opere che quindi non creano un “sistema” ma si ergono isolate, quasi incapaci di dialogare tra loro e con il contesto (si vedano i nuovi grattacieli milanesi o il Guggenheim di Bilbao di F. O. Gehry). Ma ultimamente anche queste tendenze stanno lasciando spazio a una riflessione più profonda, spesso di nuovo intimistica o comunque meno iconica e più declinata al servizio del singolo o della collettività. Un esempio tra tutti possono essere le residenze a contatto con la natura di G. Murcutt, ma interessanti sono anche molte altre opere, come quelle dei giapponesi K. Kuma o SANAA.
È giusto trovare forme universali?
Le riflessioni che si stanno sviluppando in questo momento storico talvolta sfiorano l’impalpabile (molto frequentemente si tratta di architetture temporanee o di installazioni) e tuttora non paiono aver trovato il modo di segnare il passo con un linguaggio comune e rappresentativo. Ma a questo punto sorge spontaneo un altro interrogativo? È giusto trovare forme universali? È corretto voler dare all’Architettura un ruolo comunicativo come quello che aveva all’inizio del ‘900, oppure è necessario ritornare in modo più diretto ai fondamenti stessi del costruire come riparo, come separazione per momenti di solitudine oppure come perimetro sicuro e identitario per la collettività. In questo senso, forse si sta delineando una nuova consapevolezza, ancora non chiara e non manifesta: ovvero che l’Architettura ha la necessità di legarsi a un contesto e alla sua specificità, che in un’epoca di contatti globali (la realtà web ha cambiato molte delle nostre percezioni e ha sostituito gran parte del ruolo strettamente evocativo delle costruzioni) gli edifici possono tornare ad essere il “porto sicuro” e il “luogo della collettività locale”, senza necessità di dettare linee di pensiero, ma rendendosi efficaci catalizzatori di scambi “umani” e di sentimenti. Una realtà, insomma, molto più vicina all’uomo.
Non sappiamo quali saranno le evoluzioni che ci aspettano, ma possiamo attenderle con una cauta fiducia.