Non è certo la prima volta che il cinema americano si confronta con la morte come tema su cui costruire la storia di un film (e non solo come, a volte, inevitabile punto di arrivo). La cultura americana, costruita su un pragmatismo darwinista molto meno colpevolizzante (non sarà certo un caso se in Italia si finisce per incolpare Maramao della sua morte visto che l’orto era pieno di insalata e possedeva anche una casa. Senza contare le micine innamorate…) e soprattutto imbevuta di un protestantesimo ben più «virile» del cattolicesimo romano, non ha mai avuto paura di guardare in faccia all’ultimo trapasso. E non solo nei drammi, ma anche nelle commedie (Insonnia d’amore inizia con padre e figlio che piangono al funerale della madre) e addirittura nei cartoni animati (che cos’è Up se non una lunga — e avventurosa — elaborazione di un lutto?). Per non parlare di Ghost…
Su questa «laica» riflessione sulla morte è costruito anche Amabili resti, che ha tratto dall’omonimo romanzo di Alice Sebold (in Italia è stato pubblicato da e/o) dove l’anima dell’adolescente Susie (Saoirse Ronan) osserva da una specie di «terra di mezzo» il dolore della propria famiglia dopo essere stata violentata e uccisa da un pedofilo. A raccontare il film è la voce fuori campo di Susie, che fin dalle primissime scene svela il proprio non essere più in vita. E pian piano lo spettatore si abitua a questo strano narratore defunto (ricordate la voce di Joe Gillis/William Holden in Viale del tramonto?) che «ricostruisce»— o forse sarebbe meglio dire: ricorda — la sua vita da viva, i primi batticuori per un compagno di scuola ma anche la insinuante e meticolosa rete che un vicino di casa (Stanley Tucci) le sta tessendo intorno.
Rete in cui Susie cade e da cui esce ormai «trapassata» ma non «liberata» dai suoi legami terrestri. Perché l’idea del libro (che il film riprende) è che i morti non sono liberi di andare in Paradiso (o nei Campi elisi o nelle Grandi pianure, a seconda delle proprie convinzioni religiose) fino a quando hanno ancora qualche legame in sospeso con la terra. E il dolore lancinante dei genitori (Mark Wahlberg e Rachel Weisz), incapaci di farsi una ragione della morte della figlia, è una ragione più che valida per trattenere l’anima in una specie di «limbo» dalle colorazioni psichedel-autunnal-misticheggianti.
Fino a questo momento il film, pur nel suo insolito punto di partenza, riesce a tenere insieme le due dimensioni — quella terrestre e quella soprannaturale — senza eccessivi problemi: qualche illustrazione dell’aldilà può sembrare eccessivamente naif o troppo schematicamente new age, ma all’inizio assomigliano a peccati veniali. E l’idea che le anime trapassate possano continuare a soffrire per la mancata elaborazione del lutto dei sopravvissuti (in questo caso i due genitori e la sorellina, interpretata da Rose McIver) offre spunti di riflessione non scontati. Così come la quasi impossibilità per Susie di indirizzare le ricerche di polizia e parenti verso il vero responsabile della propria morte, eccetto forse un qualche suggerimento alla sorella…
Ma quella che sembrava una più tortuosa strada verso l’accettazione del dolore (l’elaborazione deve essere fatta dai sopravvissuti ma anche, in qualche modo, dai trapassati), vira all’improvviso verso la più scontata e irrazionale fantasia paganeggiante, dove i legami tra il mondo dei terrestri e quello dei defunti diventano sempre più labili da una parte e inutilmente contorti dall’altra. Non basta più che i due genitori, dopo un lungo periodo di separazione e di crisi (che permette l’ingresso in campo—un po’ gratuito, devo dire — della nonna interpretata da Susan Sarandon) riescano a ritrovarsi e a farsi una ragione della perdita della figlia. A questo punto lo spettatore scopre a sorpresa anche chi sono veramente le anime che aspettano con Susie l’ultimo viaggio (un colpo di scena che sembra uscire di un gusto morbosamente compiaciuto, non da una qualche coerente rivelazione) mentre Susie si ricorda di avere dei «conti in sospeso» con i viventi che fino ad allora sembravano dimenticati. E il film finisce per percorrere due strade che non si intrecciano più e che permettono di arrivare a una specie di happy ending per niente convincente.
[fonte: Corriere.it – Paolo Mereghetti]