Una premessa doverosa, l’autore di questo racconto non è quel Tolstòj. I due sono cugini di secondo grado.
“Vurdalak” è una storia nella storia, abbiamo cioè un personaggio, il vecchio Marchese d’Urfé diplomatico francese, che, durante uno dei ricevimenti a margine del Congresso di Vienna (1815), racconta una macabra avventura giovanile (1759).
Il giovane Marchese per ingelosire un amore non corrisposto, si fa assegnare una missione diplomatica in Moldavia. Lungo la strada è costretto a fermarsi in un villaggio. Il monastero locale è stato saccheggiato dai turchi, quindi trova ospitalità da privati.
Il capofamiglia, il vecchio Gorca, un bel giorno decide di andare a caccia di banditi, avvisa i suoi congiunti che se non farà ritorno entro dieci giorni dovranno darlo per morto. In effetti, trascorso il decimo giorno, torna sì a casa ma è un vampiro. In compenso non ha perso il piglio un po’ rude e ignorante tipico, a detta del Marchese, dei serbi (che però, aggiunge, sono coraggiosi e onesti). Giorgio, il figlio maggiore, sospetta qualcosa, ma non agisce per rispetto del padre e così Gorca dissangua suo nipote e fa il bello e il brutto tempo.
In questo contesto “sereno” il Marchese pensa bene di combinare con la figlia di Gorca che ci starebbe anche ma, alla prima occasione, i due vengono sorpresi da Giorgio che “invita” il francese a proseguire la sua missione. D’Urfé obbedisce, parte e si dimentica tutto.
Al rientro verso la Francia decide di vedere se c’è trippa per gatti con la figlia di Gorca. Scopre che il villaggio è in rovina, in compenso il monastero è in pieno fervore, i vampiri (vurdulak) hanno giovato agli affari dei monaci.
Il Marchese però non si arrende, raggiunge la casa della sua bella e la trova molto disponibile. Troppo. In effetti più che al suo amore, lei punta al suo sangue. Con una scusa improbabile (“vado a vedere come sta il cavallo”) il francese riesce a smarcarsi e a fuggire inseguito da un’orda di vampiri, bambini usati come proiettili compresi.
Ci spostiamo con questo racconto in area balcanica, zona che diverrà in seguito la patria per antonomasia dei vampiri. Tolstòj ricorre a quelli che diventeranno canoni del genere: il vampiro/femme fatale, il paletto nel cuore, l’avversione per la Croce e i simboli religiosi.
La particolarità di questo racconto è l’ambiente rurale, qui i vampiri non sono aristocratici, sono poveri diavoli che contraggono un morbo e che lo diffondono tra i propri famigliari. Emerge una paura atavica che aveva alimentato le epidemie di vampirismo ben documentate dalla Storia europea: il contagio del male che rende pericolsi anche i propri cari.