All’inizio fu l’Oriente vicino, l’esotismo e la seduzione degli hammam e degli harem, le palme, i minareti ma anche i deserti popolati di beduini e cammelli, o i colori delle città del Magreb. Poi lo sguardo degli artisti migrò ancora più ad Oriente, verso quelle culture e quelle atmosfere dell’estremo oriente altrettanto esotiche e forse ancora più incantevoli. Ed è su questo lontano Oriente, lo stesso che diviene popolare grazie ai romanzi d’avventura popolati da tigri o dal fumo conturbante dell’oppio, lo stesso che ammaliò tutta Europa grazie alle delicate armonie dei racconti e delle incisioni giapponesi, che si sofferma la grande mostra che Palazzo Magnani, a Reggio Emilia, promuove con il titolo Incanti di terre lontane. Hayez, Fontanesi e la pittura italiana tra otto e novecento.
Un titolo articolato per dar conto delle diverse anime che danno vita a questa affascinante esposizione. I due protagonisti innanzitutto, Hayez e Fontanesi. L’Oriente del primo è quello vicino, mediterraneo, non direttamente vissuto ma sapientemente evocato. Quello del secondo, invece, è l’Oriente estremo, o almeno un lembo di esso, il lontano Giappone, regno che lo ospitò a lungo, onorandolo, e che lui a sua volta volle onorare. Intorno ai due, i molti altri che lungo gran parte di questo secolo, l’Ottocento appunto, hanno descritto gli incanti, le malie di terre ai più ignote e per questo ancora più affascinanti. Un centinaio di opere degli Orientalisti italiani, con molte novità. A partire dalla presenza, straordinaria di alcuni dei più importanti dipinti di Francesco Hayez. A Palazzo Magnani si potranno infatti ammirare l’Odalisca della Pinacoteca di Brera, la Ruth delle Collezioni Comunali di Bologna e Un’odalisca alla finestra di un Harem di una nota collezione privata.
La mostra dà conto della ventata d’Oriente che suggestionò la pittura italiana nel secondo ‘800 riconoscendo come punto d’avvio, non unico ma certo particolarmente importante, Francesco Hayez. Da Parma, prima Alberto Pasini e poi Roberto Guastalla, il Pellegrino del sole, percorsero carovaniere e città per raccontare questi altri mondi. Il secondo lo fece portandosi dietro, oltre a tavolozza, cavalletto e pennelli, anche uno strumento nuovo, la macchina fotografica. Da Firenze parti alla volta dell’Egitto Stefano Ussi che subito dopo l’apertura del Canale di Suez, lavorò per il Pascià prima di trasferirsi in Marocco. Al fascino della scoperta che si fa suggestiva visione di mondi altri soggiacquero Eugenio Zampighi, Pompeo Mariani, Augusto Valli, Achille Glisenti a conferma della trasversalità e del dilagare in tutta la penisola di un’affascinante attrazione.
Dall’Orientalismo non sfuggì certo il Mezzogiorno d’Italia. Ne fu testimonianza, a Napoli, Domenico Morelli che, senza mai aver messo piede nei territori d’oltremare, descrisse magistralmente velate odalische, figure di arabi, mistiche atmosfere di preghiere a Maometto. Visioni esotiche soffuse di raffinato erotismo si ritrovano anche negli olii scenografici di Fabio Fabbi, del siciliano Ettore Cercone e del pugliese Francesco Netti. Quest’ultimo in particolare, di ritorno da un viaggio in Turchia, si dedicò alla produzione di opere orientaliste di tono intimista, come per esempio Le ricamatrici levantine, venate dallo stesso garbo mediterraneo, presente nelle odalische di Morelli
Una attenzione peculiare la mostra riserva, anche per ragioni di nascita reggiana, a Antonio Fontanesi. Egli, tra il 1876 e il 1878, venne chiamato, insieme al altri artisti italiani, ad insegnare alla neo-fondata Accademia di Belle Arti d Tokyo, restituendo immagini disegnate e dipinte del Giappone interpretate dal suo squisito linguaggio lirico. Nella ricca produzione pittorica di questo artista le opere di soggetto orientale non sono che poche unità: tre dipinti, tra cui uno non ultimato e alcuni disegni a matita. Preziose e rare testimonianze raccolte per la prima volta in una mostra. Diversa critica ha voluto, nel tempo, attribuire all’esperienza in Giappone di Fontanesi uno scarso valore in termini di ricaduta sulle sue modalità espressive e stilistiche e per certi versi ciò corrisponde a verità. Ma un altro aspetto va sicuramente sottolineato. Nessun pittore dell’Ottocento europeo ha mostrato di possedere meglio di Fontanesi una intensa consonanza con alcuni elementi della poetica e dell’estetica orientale, giapponese nello specifico, per quanto attiene, ad esempio, all’interpretazione del rapporto uomo/natura e a una visione profonda del mondo.
Questa affinità elettiva tra Fontanesi e l’Oriente, sebbene forse non del tutto meditata e consapevole, emerge in modo evidente se si analizza la vicenda artistica del pittore dalla sua formazione alla maturità, con uno sguardo attendo alla sua esperienza in Giappone. Un soggiorno che lo vide protagonista nella Tokyo del periodo Meiji che mostrava una crescente apertura nei confronti dell’Occidente, proprio nel momento in cui in Europa si poteva assistere all’ampia diffusione in arte del gusto “orientalista” in particolare in pittura. L’attenzione dell’arte italiana per lo stile e le atmosfere naturalistiche estremo orientali era, sul finire del secolo, davvero notevole. Si innestava sulla moda del giapponismo che ha affascinato nel corso dell’Ottocento tutta Europa grazie in particolare alla diffusione delle raffinate stampe giapponesi ukiyo-e di artisti quali Utamaro, Hiroshige e Hokusai, che vengono avidamente collezionate da intellettuali, mercanti d’arte e, naturalmente, artisti.
Ma i contatti tra l’arte italiana con l’estremo oriente saranno nella seconda metà dell’Ottocento più articolati e profondi, grazie alla progressiva apertura commerciale e politica di questi paesi verso l’Occidente. Molti artisti italiani compirono viaggi di lavoro, chiamati dai governi locali a portare la loro arte in quelle remote contrade e ebbero modo di comprenderne a fondo la cultura, i valori coloristici e le atmosfere che restituiranno in modo intenso nei loro schizzi e dipinti, con una capacità di penetrazione e racconto molto lontane dall’approccio “in stile” che aveva caratterizzato la moda europea. Così Fontanesi in Giappone. Così Galileo Chini, nel favoloso Siam dove si recò insieme all’architetto torinese Annibale Rigotti, tra il 1911 e il 1914, per partecipare alla fastosa decorazione del Palazzo del Trono a Bangkok. E con Chini, Salvino Tafanari che con lui aveva già lavorato a Firenze e che qui venne incantato dalla flessuose danzatrici dell’isola di Giava, esempio fra i molti di artisti italiani stregati dal mal d’Oriente, malia che trasmisero in patria, in una meravigliosa contaminazione di cui la mostra reggiana è superba testimonianza.
Incanti di terre lontane. Hayez, Fontanesi e la pittura italiana tra otto e novecento
Reggio Emilia, Palazzo Magnani
Fino al 29 aprile 2012